LA FIABA DI SAN LORENZO

C’erano una volta il Regno dell’Est e quello dell’Ovest. 
Entrambi baciati dal sole, volgevano i loro sguardo al mare ed erano uniti in un abbraccio fatto di boschi e sentieri.
Quelli che per secoli erano stati regni amici e alleati nella ricerca della pace e dell’armonia si erano divisi per uni stupido screzio tra i due Re che li governavano.
Si racconta che un giorno alla presenza della Regina del Sud e del suo fascino i due litigarono perché entrambi volevano possedere il mare più blu del mondo, in cui la bella regnante avrebbe potuto trascorrere ore felici.
L’arroganza del Re dell’Est e l’orgoglio del Re dell’Ovest segnarono la fine della pace tra i due regni.
Importante per la narrazione è dire che dopo questa rottura i Re fecero educare i loro primogeniti all’arte della guerra con l’unico obiettivo di conquistare l’uno il regno dell’altro ed essere così il sovrano di tutto il mare conosciuto. 
I due giovani erano stati cresciuti come fratelli. Sin da quando erano nati avevano passato insieme le estati a giocare a nascondino tra i boschi, ascoltare il canto delle cicale e cercare ristoro nell’acqua limpida del mare. Passavano intere giornate tra le calette dei due regni per sfuggire agli obblighi regali ed essere solo fanciulli. 
Appena appresa la notizia della faida, senza nemmeno pensarci, i due scapparono di casa sicuri della meta: la Caletta della Luna, il posto dove i due regni si congiungevano. Ci vollero due giorni e due notti a cavallo per raggiungerla, ma entrambi, quasi si fossero dati appuntamento, si ritrovarono in quel posto col fiato corto e gli occhi carichi di lacrime. 
“Ti aspettavo” disse il principe.
“Sapevo ti avrei trovato qui” rispose la principessa.
Si strinsero in un lungo abbraccio silenzioso. Fu quello il momento in cui i due si resero conto che non erano più due fratelli, ma un giovane uomo e una giovane donna. 
La testa di lui sprofondò
nella lunga chioma bionda per farsi ubriacare dal loro profumo di fiori e lei non riusciva a staccarsi da quelle braccia che sapevano di sole e sale.
Trascorsero la giornata a pianificare una fuga, lontano da tutti dimenticando le loro origini e i loro doveri. L’idea di perdersi li uccideva, non era pensabile condividere quei luoghi con qualcun altro. Il mare, le cicale, la loro condivisa solitudine, la loro comune voglia di non vivere un ruolo. 
Al calar del sole improvvisarono un falò per aspettare le stelle e la possibilità di esprimere un desiderio. Il caldo sembrava non voler mollare la sua presa e, complice il buio decisero di diventare un tutt’uno con il cielo e il mare.
Arpalice fece scivolare delicatamente la veste sulla spiaggia per farsi vestire dalle acque cristalline. Ci vollero diversi minuti prima che Rinaldo avesse il coraggio di alzare lo sguardo verso lei. La luna piena baciava maliziosa la sua pelle bianca mettendo in risalto quelle forme di donna di cui mai si era accorto prima. Erano morbide, accoglienti, sconosciute. Dove era finita la ragazzina tutta gambe e ossa? Era la cosa più bella che avesse mai visto. Quando la giovine sentì addosso quello sguardo si girò di scatto coprendosi istintivamente i seni. L’imbarazzo che raccontavano le guance di entrambi non gli permise di incrociare gli sguardi per minuti che sembrarono secoli.
“Muoviti entra! Non lasciarmi sola ho paura”.
Per pura cavalleria non se lo fece dire due volte. Corse goliardicamente in acqua cercando di darsi un sostegno, risultando però solo un goffo giullare non pronto a fare l’uomo. Prese mano tesa di lei. La strinse con forza come per non lasciarla mai più. Lei chiuse li occhi facendo scivolare le mani affusolate sul suo petto, i polpastrelli si misero a perlustrare ogni centimetro di quella pelle bruciata dal sole. Si fermarono poco sotto il cuore scivolando su e giù su una piccola, quanto profonda ferita, ormai rimarginata. Arpalice aveva memoria di quella cicatrice. Era stata proprio lei a procurargliela durante un allenamento con la spada. Lui l’aveva sfidata, lui non aveva tenuto la guardia.
“Se mi fai star male la prossima volta affonderò più in alto” disse ridendo la ragazza.
“Nulla potrebbe ferirmi di più che perderti” ribatté lui.
Nella notte delle stelle cadenti arrivò il turno del loro desiderio che suggellarono facendo l’amore. Testimoni di quella promessa il Mare, la Luna e  il Destino: da lì a un anno si sarebbero riuniti sotto quello stesso cielo per portare a termine il loro piano. Il giorno fece capolino e i due giovani amanti dovettero lasciarsi e aspettare il passaggio di 12 lune.
Fu un lungo e freddo inverno, nei due regni erano stati banditi i contatti, scambi di qualsiasi genere e sorta tra l’Est e l’Ovest. Pena l’appiccagione.
Nel terzo mese della Primavera venne alla luce una piccola creatura che Arpalice chiamò Estate. Per paura di mettere al repentaglio la vita di Rinaldo, Arpalice tacque sia a lui che a suo padre la verità. 
Il Re dell’Ovest che in cuor suo aveva sapeva fuincapace di punire quell’unica figlia che amava più della sua stessa vita e accolse la nipote con gioia, ma stabilì che al suo decimo compleanno la madre avrebbe preso in sposo il Re del Nord, in modo da creare una salda alleanza contro l’Ovest. 
Il popolo pianse il valoroso Principe del Regno Che Non C’è caduto in battaglia prima di vedere la sua erede e, per la sicurezza della stessa, obbligato a mantenere il silenzio sulla sua nascita.
Arpalice si sentì morire dentro. Il giovane Principe del Nord era perfetto, come nelle fiabe che le raccontava la balia Cristiana prima di cadere nel mondo dei sogni: bello, valoroso, dal cuore puro e il corpo di una statua. Unico capriccio i ricci castani che soleva tenere lunghi e per poterli attorcigliare al dito nei momenti di tensione.
Perfetto, ma non per lei che amava quel groviglio di pensieri chiamato Rinaldo. Allo stesso tempo era sollevata poiché durante la notte delle stelle, avrebbe rincontrato il suo amato e con la piccola Estate avrebbero affrontato l’autunno e l’inverno come una famiglia, umile, ma una famiglia. Era pronta a lasciare tutto per loro. Avrebbe lottato per loro, sicura che anche il suo Principe avrebbe fatto lo stesso.
Si mise in viaggio di notte con la piccola Estate al collo e il suo destriero a sorreggere la fatica.  Le lucciole resero meno oscuro il sentiero.
Arrivarono che la luce puntava a metà del giorno. Lui non era ancora arrivato. Pensò che fosse il solito ritardatario. Spogliò la piccola e lei per entrare immediatamente in acqua: “Ecco mia Vita, noi. Tu, io e il tuo papà siamo questo: mare”. La piccola sorrise come se avesse capito, gioiosa di sbattere i piedini in acqua. 
Arrivò il tramonto, ma di Rinaldo ancora non vi era traccia. Arpalice iniziava a temere che i Re li avessero scoperti.  Il cielo si coprì di stelle, ma quella notte non vide nessuna stella cadente. Un brutto presagio pensò, addormentandosi stremata e abbracciata alla sua piccola sotto le fronde di un pino.
La svegliò bruscamente il muoversi innaturale delle fronde. Sguainò la spada in direzione dei monti. Con stupore di fronte a lei Fedro, il fedele falco del suo amato. Lo avevano addestrato insieme. Vide un biglietto legato alla sua zampa. Era successo qualcosa. Era stato scoperto, non vi era dubbio. Ancor prima di leggere Arpalice iniziò a pensare al salvataggio da mettere in atto.
Quando aprì la pergamena dovette rileggere più volte per comprenderne il significato: “Ho giurato fedeltà alla mia patria e a mio padre davanti a Dio. Non posso amarti. Non so più amarti”.
Dopo la morte di sua madre questa era la seconda volta che le strappavano il  cuore dal petto.
Prese il braccio la piccola tendendola verso il blu: “Non hai padre! Giuro di  fronte a ciò che ho di più caro di strappargli il cuore con le mie stesse mani e gettarlo ai pesci”.
Da quel giorno i grandi occhi verdi della Principessa persero la loro luce. Cambiò. Cambio molto. Tutta la sua vita fu dedita alla figlia, al suo popolo e alla conquista di tutto ciò che circondava il Regno dell’Est.
I bei capelli che soleva portare sciolti e adorni di fiori freschi vennero legati in un’austera treccia. Unico vezzo la sua armatura che si dice fosse stata forgiata da una maga e che era riconoscibile per le rose selvatiche che impreziosivano la struttura e che ritornavano sull’impugnatura della spada.
Estate cresceva bella e solare e sua madre più la guardava più ritrovava in lei  i tratti che la avevano fatta innamorare di quell’uomo di cui voleva dimenticare il nome. L’arguzia e grande capacità di parola, la pelle che da latte diventava dorata al sole, la voglia di esplorare e di non fermarsi. In lei ci vedeva lei. Pensava che fosse il miglior errore da fare con un uomo. Nonostante ciò il suo cuore era diventato ghiaccio.
Ogni anno la Notte di San Lorenzo tornava alla Caletta, i primi anni sperò di ritrovarlo, chiarisi e capire. Col tempo aveva iniziato a chiedere al mare la risposta ai suoi dubbi, ai suoi perché, a quella dannata mancanza di coraggio.
Gli anni passarono veloci e si avvicinava il tempo di onorare la promessa fatta al Re del Nord. Insieme sarebbero stati una potenza, anche senza possedere tutto il mare conosciuto.
Estate che di entrambi i genitori aveva preso l’ostinazione, anche a sbagliare, non aveva mai creduto alla storia del papà morto in guerra e facendo leva sull’ingenuità di balia Cristiana:
“Oh Balia Bella, cosa darei per avere un papà. Oh Balia bella, come sarebbe bello poter chiedere alla stelle nella notte dei desideri di conoscere il mio papà. Almeno una volta”. 
L’età aveva di molto smorzato la capacità della balia di mantenere un segreto,  che già non era delle più ferree, soprattutto davanti a due occhioni e grandi boccoli biondi che aveva curato dalla nascita.
La balia Cristana, con il perdono di Dio, raccontò tutto alla piccola, storia della caletta inclusa, facendole fare croce sul cuore che non avrebbe mai detto nulla a nessuno di quella storia sopratutto a sua madre che le avrebbe fatto tagliare la testa.
Estate era una bambina di parola. Decise così di studiare un piano per conoscere il suo vero padre.

Le dicerie, si sa, nessuno riesce a fermarle, nemmeno il diktat di un Re. Ecco che del futuro Re dell’Est si narrava che a causa del maleficio di una potente strega di cui era proibito pronunciare il nome, il principe fosse diventato un dissipato misantropo e che l’unica relazione che riuscisse a instaurare con una donna fosse di breve durata, per soddisfare la sua fame di narciso. Aveva amato il corpo di regine e puttane, principesse e regine di tutti i mondi, belle o particolarmente potenti. Non aveva però mai amato la loro testa, la loro integrità, la loro fedeltà. A quello preferiva vino e tabacco.

Una volta al mese, per volontà del vecchio Re dell’Est, il principe era obbligato a incontrare il popolo per prendere in carico le richieste più ragionevoli.
Estate camuffata da maschietto si presentò proprio in quel giorno. La coda era lunga, ma la sua costanza venne premiata.
Ecco il suo momento. Poteva tornare indietro, ma no! Sua madre non l’avrebbe fatto. Inspirò e senza prendere fiatò impostò il migliore dei suoi inchini: “Sua Maestà…” l’eleganza di quel gesto catturò l’attenzione di Rinaldo che sino a quel momento sembra più interessato a contare i fili delle ragnatele che ad ascoltare. 
“Ditemi ragazzo, cosa vi porta al mio cospetto?”.
Alzando lentamente la testa disse scandendo: “Sto cercando mio padre”.
Il Principe si paralizzò incrociando lo sguardo di Estate. Li avrebbe riconosciuti in mezzo a un milione di soldati. Erano gli occhi di Arpalice. Verdi e sfumati di giallo come una gatta, solo in un piccolo corpo.
“E perché lo cerchi qui?”
“Ditemelo Voi” disse Estate con tono di sfida. 
La stessa volontà di avere l’ultima parola di Arpalice.
Rinaldo iniziava a pensare ad un sortilegio o a un post sbornia troppo acuto.
Il sovrano interruppe le udienze e fece condurre quello che credeva un bambino in una stanza isolata.
Rinaldo iniziò a studiarlo senza proferire parola. In quel piccolo essere non c’era solo la donna di cui si era innamorato. 
“Lo sai che non sta bene tenere il cappello? Sembri così ben educato…” disse alla fanciulla.
“In verità non lo tolgo mai”.
“Dovrai a fare un’eccezione, se  vorrai che esaudisca il tuo desiderio”.
“Ma, io veramente…”
“Ora o mai più!”.
Estate suo malgrado dovette cedere e dal piccolo cappello a punta verde fece scivolare la sua cascata di boccoli.
Rinaldo non aveva più voce, la sbornia gli era passata all’istante e riuscì a dire solo: “Tu, Tu…”
La fanciulla che dalla madre aveva ereditato anche l’impazienza rispose: “Io, io… Sì sono io tua figlia! Eppure mi avevano detto che eri sveglio”.
Rinaldo sobbalzò. Quella risposta poteva essere solo di quella lingua lunga di sua madre.
Dopo anni scoppiò a piangere. Aveva dimenticato che sensazione di liberazione potevano dare piccole gocce di acqua calda sulle guance.
Più piangeva, più aveva voglia di non fermare quel flusso.
I suoi occhi di adulto chiedevano una spiegazione e quella piccola bambina ossuta.
“Non sai amare, ecco perché. Lei si sposerà dopo l’estate. E non sa che io sono qui. Ora so chi sei, posso andare e tu far finta di non avermi mai vista. Tanto il tuo cuore non batte. Giusto?”.
Rinaldo rimase immobile fissando quel figurino uscire dalla stanza. Estate tornò a castello senza raccontare ad anima viva dell’accaduto. Si confidò solo con la Luna.

Puntuale come ogni agosto era tornata la notte delle stelle. Arpalice aveva deciso di lasciare il cavallo un pò più in su per ripercorrere quei sentieri  un’ultima volta. Dopo lo sposalizio con il Re del Nord, dopo il suo giuramento di fedeltà avrebbe chiuso in un cassetto il passato.
I pini che una volta avevano tronchi esili si erano ingrossati, intensificato il loro profumo e aumentato la loro ombra. Le cicale continuavano a cantare a squarcia gola quasi a celebrare la bella stagione e ricordi erano sempre gli stessi, sempre vivi e dolorosi. 
Quasi giunta alla spiaggia Arpalice si rese conto che sul suo scoglio c’era un uomo. Il sole accecante le permise di intravedere i capelli e la barba lunga a coprire un corpo esile quanto nerboruto. Probabilmente un barbone o un mercenario.
Prese delicatamente la spada dal suo astuccio. Lo avrebbe sorpreso alle spalle.
Si avvicinò delicata puntandogli la lama in mezzo alla schiena.
“Girati. Lentamente o prima di avermi visto sarai già morto”.
L’uomo alzò le braccia in segno di resa. Mantenendo la guardia la Principessa gli permise di voltarsi, appoggiando però la lama all’altezza del cuore.
Un colpo, sarebbe bastato un colpo.
Arpalice sussultò e poi puntò più forte la lama nella pelle di quell’uomo.
“Tu?”
“Io! L’uomo che non sa amare”.
La collera della donna era tale che avrebbe solo voluto infierire per portare a termine il suo obiettivo”, ma qualcosa in quello sguardo perso glielo impediva.
“Qual coraggio a presentarti. Ho giurato davanti a questo mare che ti avrei strappato il cuore e poi glielo avrei donato perché non lo meritavi”.
Rinaldo abbassò lo sguardo verso il petto: “Prendilo è tuo. È sempre stato tuo. Ho avuto paura, ero confuso e non volevo deludere mio padre. Prima di morire però voglio che tu sappia una cosa. In tutti questi anni, ogni estate sono tornato qui, ti sorvegliavo dall’alto della montagna. Ti ho vista crescere, ti ho vista lottare, ti ho vista piangere. Ora ti guarderò prendere la vita che ti dovevo”.
Un rivolo di sangue stava macchiando la pelle liscia dell’uomo. 
Arpalice crollò in lacrime sulle ginocchia: “Ti odio”.
“Io no!” rispose Rinaldo.

Come va a finire… beh come tutte le fiabe.
E vissero felici e contenti rincorrendo Estate tra i sentieri, le cicale e possedendo tutto il mare conosciuto.















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